
Una chiave: a “colloquio” con Caparezza
No non è vero che non sei capace
Che non c’è una chiave
C’è chi l’ha letto cantando e chi mente. Dopo il bellissimo articolo di Salvatore Rosella qui ad idee folli torniamo a parlare della Capa più rezza di Molfetta. E lo facciamo commentando la parola della settimana, che non a caso è anche il titolo di uno dei singoli più belli dell’album Prisoner 709 del 2017: Una chiave.
Amato e a volte anche criticato, negli ultimi due album il cantautore pugliese ha deciso progressivamente di abbandonare la politica e l’attualità per concentrarsi maggiormente su temi esistenziali propri della sua interiorità. Come ha dichiarato in più interviste, l’esperienza dell’acufene e il superamento della soglia degli “anta” l’hanno spinto a ricercare nuove ispirazione per i suoi pezzi e a segnare le distanze con il passato, fino ad abbandonare l’iconica voce nasale. Decisione ancor più evidente nel nuovo album Exuvia.
Ma torniamo al nostro brano. Come detto prima una chiave fa parte dell’album Prisoner 709 in cui si racconta il viaggio psichedelico di un paziente costretto ad un ricovero forzoso in manicomio.
Ogni canzone rappresenta un momento specifico della narrazione, tant’è che oltre al titolo del brano troviamo anche la denominazione del capitolo riferito alla macro-storia che lega tutte le canzoni.
Una chiave (il colloquio)
Il brano una chiave corrisponde al capitolo il colloquio. E la prima domanda da porsi è, il colloquio fra chi? Fra il medico e il carcerato? Fra Caparezza e Michele? Ma focalizziamoci sul contenuto nudo e crudo della canzone.
Il testo rappresenta una conversazione fra Michele e il bambino che è stato
Siamo la stessa cosa, mica siamo imparentati
Ci separano solo i calendari, vai!
L’empatia e il riconoscimento
Ti riconosco dai capelli, crespi come cipressi
Da come cammini, come ti vesti
Dagli occhi spalancati come i libri di fumetti che leggi
Da come pensi che hai più difetti che pregi
Dall′invisibile che indossi tutte le mattine
La chiave per capire il brano forse è proprio nel riconoscimento descritto nei primi versi. Sia che stia parlando con un giovane sé stesso sia che si stia riferendo ad un ascoltatore, il legame empatico è stabilito proprio dall’identificazione con l’altro. Un riconoscimento prima fisico (i capelli, i vestiti le movenze) e poi interiore: la necessità di rifugiarsi nella letteratura e nella fantasia, e di indossare corazze invisibili che ti permettano di andare avanti.
Chi di voi in questa descrizione non risente le eco di la mia parte intollerante?
La chiave del tempo
Potessi abbattere lo schermo degli anni
Ti donerei l’inconsistenza dello scherno degli altri
So che siamo tanto presenti quanto distanti
So bene come ti senti e so quanto ti sbagli, credimi
Se solo si potesse giocare con il tempo chi di voi non tornerebbe indietro a parlare al bambino che si è stati, per spiegargli che sì, sopravvivrà a tutto quello che sta affrontando, che troverà la sua chiave
La chiave dell’isolamento
Ma che cos’è che rende il nostro piccolo protagonista solo e isolato? L’incapacità di definirsi attraverso le categorie comuni e l’identità ritrovata solo nel dissenso (anche qua non si può non pensare alla fitta sassaiola dell’ingiuria); tutti temi cari a Caparezza, ma soprattutto tutte tematiche con cui ognuno di noi ha dovuto fare i conti, almeno una volta.
E ti fai solitario quando tutti fanno branco
Ti senti libero ma intanto ti stai ancorando
Tutti bardati, cavalli da condottieri
Tu maglioni slabbrati, pacchiani, ben poco seri
Il rovesciamento dei ruoli
Potessi apparirti come uno spettro lo farei adesso
Ma ti spaventerei perché sarei lo spettro di me stesso
E mi diresti “guarda, tutto a posto
Da quel che vedo invece, tu l’opposto”
Sono sopravvissuto al bosco ed ho battuto l’orco
Ed ecco che come nelle migliori tradizioni, Caparezza ci spiazza. Improvvisamente i ruoli si invertono. Non è più l’adulto a salvare il bambino. L’orco dell’infanzia è stato battuto, ma si potrà dire lo stesso per il mostro dell’età adulta?
La chiave di volta
Dopo aver ascoltato a tutto volume questa canzone, perché non approfittarne e lasciarci trasportare dall’atmosfera. Immaginiamo per un momento di incontrare il bambino che siamo stati, ripensiamo a tutte le piccole grandi sfide che ha dovuto affrontare e rassicuriamolo. E ora pensiamo a noi, a quello che abbiamo raggiunto ed a quello in cui abbiamo fallito, a quello che stiamo facendo e a come siamo diventati. Cosa ci direbbe quel bambino?

