
Cirano va a China Town: l’epopea dell’inchiostro
Avete presente la scena di Matrix? Quando Morpheus propone a Neo la scelta tra la pillola azzurra e la pillola rossa? Se prendi la prima, fine della storia; se prendi la seconda, inizia il film. Il protagonista è Keanu Reeves, tentatissimo di tornarsene a casa e, allo stesso tempo, di partire all’avventura. Ecco, sfido chiunque a realizzare meglio il concetto di “indecisione”, servendosi solo di un paio di occhiali da sole (al buio) e due M&M’s1.

Tutto questo per dirvi che: non sapevo proprio cosa scegliere per questo articolo! Il Cirano di Guccini? O China Town di Caparezza? Qualsiasi decisione prendessi, sembrava un torto alla mia ispirazione e, peggio ancora, alla bellezza di queste due canzoni. Poi per fortuna il mio cervello da criceto si è ricordato una cosa fondamentale: la parola di questa settimana non è “scelta”2; quindi, perché scegliere?
Questa settimana Idee Folli parla di “inchiostro”? E così sia, allora. Che l’inchiostro scorra a fiumi, dagli Appennini alle Ande, fino in Guascogna. Le due canzoni sono belle, l’ho già detto; ma questa loro qualifica merita una spiegazione in più. La canzone è una forma d’arte complessa: il suo punto forte può essere la musica, può essere la voce dell’interprete, può essere anche, come nel nostro caso, il testo.
Tuttavia, prima di continuare, fatemi mettere un attimo le mani avanti. Sto forse dicendo che Guccini e Caparezza non sanno cantare? Che la loro musica fa relativamente schifino? La risposta, ovviamente, è: NO. ASSOLUTAMENTE. CI MANCHEREBBE ALTRO.
Meglio scriverlo a caratteri cubitali e non incorrere nelle minacce di morte o peggio ancora nel trash talking dei numerosi fan di questi straordinari artisti. Entrambi possiedono una voce, un carattere unico, che si riflette anche nelle melodie che accompagnano i loro testi. Eppure, io che mi diletto di poesia, io che, ammettiamolo, mi ci chiudo proprio con la poesia… ecco, io ritengo che ciò che li contraddistingue sia proprio la qualità poetica delle loro parole.
Francesco e Michele3 non sono solo cantanti, sono cantautori. Travalicano il genere che pure li rappresenta, vanno oltre la canzone popolare, oltre il rap, il folk, il pop. Questa è una caratteristica della vera arte che mi stupisce e mi conquista da sempre: se la fai ai massimi livelli, qualunque sia la tradizione a cui ti ispiri, alla fine la supererai.
La poesia può seguire diversi canali: alcune persone scrivono le loro parole, altri hanno bisogno di recitarle, altri ancora di cantarle. Ma un punto accomuna tutte queste forme, quel punto che ti fa dire: è poesia. Vorreste una definizione più precisa di questo “punto”? Cascate male, non sono un critico letterario. Soprattutto, mi interessa qui di evocare quella sensazione che tutti proviamo a pelle: quando pensiamo di ascoltare “poesia”, la nostra percezione non ha a che fare con i versi, ha a che vedere, semmai, con una bellezza straordinaria, incontenibile per qualsiasi vincolo formale.
Non è la fede che ha cambiato la mia vita ma l’inchiostro
Che guida le mie dita, la mia mano, il polso
Ancora mi scrivo addosso amore corrisposto
Scoppiato di colpo come quando corri Boston
Non è la droga a darmi la pelle d’oca ma
Pensare a Mozart in mano la penna d’oca là
Sullo scrittoio a disegnare quella nota FA la storia
Senza disco, né video, né social
Valium e Prozac non mi calmano
Datemi un calamo
O qualche penna su cui stampano
Il nome di un farmaco
Solo l’inchiostro cavalca il mio stato d’animo
Chiamalo ipotalamo
Lo immagino magico, tipo Dynamo
Altro che Freud
Ho un foglio bianco
Per volare alto lo macchio
Come l’ala di un Albatro
Per la città della China
Mi metto in viaggio (da bravo)
Pellegrinaggio
Ma non a Santiago
Vado a China Town.
Caparezza va China Town e io vado a concludere il mio articolo, che si sta facendo più lungo del solito. Sarà che ho scelto due autori, invece di uno? Chissà… ma troverò una risposta, prima o poi. In ogni caso vi avevo avvertito che l’inchiostro sarebbe scorso a fiumi e, almeno in questo, ho mantenuto la mia promessa. Lo so, faccio sempre il buffone in questa rubrica. Non solo in questa rubrica, ad essere onesti.
Insomma, perché scriviamo, perché scrivo, ma soprattutto: perché scrivo cazzate? Non saprei dirvelo. Intanto «scrivo e scrivo», come direbbe Carducci4, a volte persino con un pizzico di malinconia. Ho solo una regola fondamentale: non dirvi mai niente di troppo vero.
Ma quando sono solo con questo naso al piede
Che almeno di mezz’ora da sempre mi precede
Si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore
Che a me è quasi proibito il sogno di un amore
Non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute
Per colpa o per destino le donne le ho perdute
E quando sento il peso d’ essere sempre solo
Mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo
Ma dentro di me sento che il grande amore esiste
Amo senza peccato, amo, ma sono triste
Perché Rossana è bella, siamo così diversi
A parlarle non riesco: le parlerò coi versi, le parlerò coi versi5.
Note:
- Il cult delle sorelle Wachowski chiude in bellezza gli anni ’90 e accompagna ancora il nostro immaginario nel nuovo millennio. Volete rivedervi la scena?
2. Abbiamo parlato di “scelte” a partire da Sartre, passando per Harry Potter, fino a giungere al cospetto di Heidegger. Se non l’avete già fatto, vi do un suggerimento: la scelta giusta è leggerci.
3. A me piace chiamare la gente per nome, anche quelli che non conosco di persona. È un mio vizio. Ma sto parlando sempre dei nostri beneamati Guccini e Caparezza.
4. Cito dalla lirica Davanti San Guido, forse la più delicata, autoironica delle poesie di Giosuè Carducci.
5. A proposito di Cirano, non posso non consigliarvi due cose:
- leggere il clamoroso testo teatrale di Edmond Rostand, Cyrano de Bergerac;
- guardare l’omonimo film con Gerard Depardieu, che il regista Jean-Paul Rappeneau trasse nel 1990 dal capolavoro del drammaturgo francese.

