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Filosofia,  Mondo antico

L’evoluzione della maschera, fra simbolo e narrazione

Dall’antichità fino a oggi l’uomo ha utilizzato le maschere per approcciarsi e decodificare la realtà circostante. L’uso della maschera e il suo significato ce la dice lunga sul modo di pensare e di vivere di una determinata società. Ma come si è trasformata la maschera nel corso del tempo? E soprattutto, cosa raccontano di noi le nostre maschere?

La maschera: un’immagine divina di questa realtà

Nel mondo antico la realtà umana era un riflesso di quella divina. Il tempo storico degli esseri umani doveva essere impiegato per perpetuare e riprodurre il tempo mitico degli dei. La narrazione della società era unitaria e collettiva e l’individuo si identificava perfettamente in essa. Ogni simbolo non era fine a sé stesso ma costituiva un tassello fondamentale che collegava il mondo mortale a quello divino. In questa concezione la maschera diveniva una trasposizione concreta e tangibile di ciò che raffigurava. Prendete, ad esempio, la maschera funeraria di Tutankhamon scoperta nel 1922 da Howard Carter. Il manufatto in questione non rappresentava semplicemente un determinato personaggio che ha ricoperto un ruolo di comando, ma simboleggiava l’idea eterna e perfetta di sovrano. La realtà, quindi, non era semplicemente descritta dal simbolo, ma veniva posta in essere da quest’ultimo. Tramite l’apparato simbolico il disegno divino riaccadeva e si perpetuava nell’infinità del tempo mortale.

Il personaggio e la persona: il simbolo fra identità e politica

Maschere: Mosaico del I secolo a.C, Musei capitolini, Roma
Mosaico del I secolo a.C, Musei capitolini, Roma

Se si pensa alla maschera nel mondo greco, non può non venir in mente il teatro. L’uso della maschera non solo è resistito durante tutta la storia della drammaturgia antica, ma ne è diventato uno dei simboli più evocativi e importanti. Come l’etimologia ci insegna, la maschera era l’elemento identificativo del personaggio e poi, in senso più ampio, dell’individuo umano. I greci, infatti, usavano il termine Prosopon, viso, per indicare sia la maschera, sia il personaggio in sé. Da quest’ultimo lemma il latino coniò, poi, la parola persona che ha assunto il significato che noi tutti conosciamo. L’identità fra maschera, intesa come personaggio, e l’individuo umano ci svela qualcosa di prezioso sulla società greca. Ben lontani per certi aspetti dal mondo del Vicino Oriente Antico, anche la cultura della poleis ateniese era fortemente collettiva. Il teatro era maggior veicolo di messaggi etici e di riflessioni politiche a cui era affidato il delicato compito di raccontare, spiegare e insegnare i valori costituenti della comunità. L’uomo, anche quando la sua individualità diventa più emergente come nelle opere di Euripide, trovava la sua identità nella collettività. Pur mettendola in discussione, infatti ne condivide i valori e partecipa attivamente ad essa per mezzo dell’impegno politico. Lo spettatore era il personaggio, e il personaggio era la persona.

La maschera e il secolo breve

Sotto molti aspetti per l’uomo moderno il novecento ha rappresentato l’apertura del vaso di pandora.

I conflitti mondiali, i regimi totalitari, il crollo del pensiero forte e il boom economico hanno contribuito all’inesorabile logoramento dell’identità collettiva. Il passaggio vorticoso dal pensiero unico al relativismo etico, e i risultati degli studi di Sigmund Freud hanno portato alla frammentazione dell’io. L’effetto di tutto questo è la separazione dell’identità dell’individuo con quella della collettività, che ora più che mai diventa massa. In questo quadro, anche la maschera e il suo significato simbolico ne escono sensibilmente trasformati. Non più specchio di una realtà perfetta, non più l’emblema di valori collettivi, la maschera diviene l’immagine dell’ignoto. Come ci racconta Cesare de Seta nel suo articolo sull’Espresso:

In tutta l’arte del novecento la maschera è simbolo della ricerca di una irraggiungibile identità. D’altronde non è Luigi Pirandello con le sue maschere uno dei protagonisti della letteratura e del teatro del secolo?

È l’inizio di una nuova narrazione che comincia a incrinarsi e a mostrare tutte le sfaccettature, anche quelle più spigolose, decostruendo e parodiando sé stessa

Il nuovo volto della maschera: la città

Gerardo Dottori, Il trittico della velocità, 1925-1927, Palazzo delle esposizioni della Penna, Perugia
Gerardo Dottori, Il trittico della velocità, 1925-1927, Palazzo delle esposizioni della Penna, Perugia

Ma in una centrifuga di idee e di stravolgimenti, quale è stato il novecento, qual è la maschera che emerge, che meglio rappresenta questa età? Forse se facessimo questa domanda a Walter Benjamin, intellettuale di spicco della prima metà del XXI secolo, risponderebbe la città. Il filosofo berlinese, infatti, aveva individuato proprio nella struttura urbana, il parto più luminoso della società occidentale, il segno e l’emblema del tracollo. La fine paventata da Benjamin riguarda anche la fine delle narrazioni, la fine dei simboli e delle maschere. E dove non ci sono simboli e viene meno la narrazione, anche l’identità si incrina, come ci ricorda Joseph Roth nella sua opera Le città Bianche:

Nessuna epoca, nessun potere, nessun concetto qui è eterno. Chi posso chiamare straniero? Lo straniero è vicino. Chi posso chiamare vicino?

Le riflessioni di Benjamin però non finiscono qui. Se l’uomo è un essere che si nutre di simboli e maschere, come fa a vivere senza? Semplice, se le inventa. Ma in fondo qual è la differenza rispetto a prima? Ogni maschera, infatti, ha una componente puramente creativa. La differenza consiste nel fatto che, prima il processo di creazione era collettivo e condiviso, ora invece è individuale, casalingo, spoglio di ogni sacralità. E i simboli non condivisi hanno vita breve, vivono solamente per lo spazio di una giornata, per poi reinventarsi il giorno seguente.

La moltiplicazione della maschera, un miracolo moderno

Dopo la decostruzione del novecento, il miracolo dei nostri giorni è la moltiplicazione delle maschere e delle narrazioni. La quantità non è però sempre sinonimo di qualità. Mille modelli culturali si susseguono e sono interscambiabili. Gli spazi di associazione, dove si costruiscono le identità collettive e individuali, sono ridotte all’osso. Da noi generalmente vince chi urla più forte, lo sappiamo bene.

Eppure questa è la nostra realtà, e non sarebbe più pensabile rifugiarsi dietro le grandi maschere del passato. I tempi sono cambiati, e in molti casi per fortuna. Non possiamo far altro che continuare a cercare e a narrarci, accettando il carattere polifonico della nostra epoca.

Perché forse proprio in questo equilibrio fra il mutevole e l’assoluto si nasconde la maschera di questi nostri anni.

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2 commenti

  • Giuseppina

    Articolo molto interessante con una scrittura molto scorrevole si legge con piacere. Seguirò il consiglio dell’ascolto di Gaber.

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