
La favola di Amore e Psiche e la trasposizione pittorica di Raffaello
Erant in quadam civitate rex et regina.
Erano in una certa città un re e una regina: un incipit così favolistico fa tornare alla mente i racconti fiabeschi che eravamo soliti ascoltare da bambini, ma in questo caso si tratta della fabula di “Amore e Psiche”, inserita all’interno delle “Metamorfosi” di Apuleio. Si tratta dell’unico romanzo – anche se “romanzo” è un termine evidentemente anacronistico – interamente pervenuto dalla letteratura latina e racconta in undici libri le vicende, o meglio, le avventure fortuite del protagonista Lucio: durante un viaggio in Tessaglia, regione della Grecia considerata terra delle streghe, viene trasformato in asino e rubato da alcuni briganti. Mentre è prigioniero, ascolta da una vecchia senza nome il racconto di “Amore e Psiche”, che si protrae per la lunghezza di quasi tre libri.
La Favola di Apuleio
La giovane Psiche è tanto bella da distogliere gli uomini al culto di Venere, che per vendicarsi ordina al figlio Eros di farla innamorare di un uomo deforme e spregevole. Eros però ha un colpo di fulmine e chiede a Zefiro di condurre Psiche in un castello incantato, ma senza rivelare la sua identità. La curiositas spinge la giovane a cercare di scoprire il volto dell’amato: nella notte cerca di far luce sul suo volto con una lucerna.
Appena all’esposizione della lampada fu chiaro il segreto del letto, vide la bestia più dolce e mite di tutte quante, il dio meraviglioso che meravigliosamente dormiva.
Per la prima volta nella narrazione, viene fatto il nome di Eros, che scompare immediatamente quando una goccia di olio bollente tocca il suo volto.
Così il dio bruciato fa un balzo e, vedendo il disastro della promessa tradita, volò via in silenzio dai baci e dalle mani della sua infelicissima sposa.
Psiche cerca di raggiungerlo e di tenerlo a sé, ma Venere comincia a perseguitarla e la sottopone a numerose prove, superate grazie all’aiuto divino: la favola si conclude con la promessa di Giove a far desistere Venere e con il ricongiungimento dei due innamorati.
Amore e Psiche: il finale moraleggiante
La favola di “Amore e Psiche” contiene un prezioso insegnamento: l’essere umano deve superare le continue sfide che la vita gli pone davanti, per ottenere il riscatto finale. La curiositas di Psiche, che brama per vedere il volto del suo amato, è la stessa che porta Lucio, filo conduttore e io narrante delle “Metamorfosi”, a trovarsi immischiato nelle situazioni più rischiose. Ma possiamo considerare anche Amore come personaggio dinamico: anche il dio deve compiere un percorso di per riuscire ad affrancarsi dagli obblighi e dai “capricci” della madre Venere e riunirsi con la sua amata.
Amore e Psiche come fonte di ispirazione per artisti e committenti
Il racconto viene tramandato fino al Rinascimento (e oltre), grazie ad interpreti e letterati del calibro di Boccaccio e Boiardo, che ne fornisce una traduzione: così un mito pagano, proveniente da racconti ancora più antichi rispetto alla versione di Apuleio, poté passare nel cristianesimo, dove fu volto a esprimere la credenza nell’eternità dell’anima e nella redenzione. Proprio in questa chiave di lettura si può apprezzare l’opera dell’artista Perin del Vaga, che porta nella Sala di Amore e Psiche, all’interno di Castel Sant’Angelo, il messaggio di una Psiche come personificazione dell’anima (in greco Psyché significa proprio “anima”), le cui prove erano necessarie per meritare la salvezza eterna, per ricevere l’immortalità.
Ma nel corso del Quattrocento e del Cinquecento la ripresa dei miti antichi, le edizioni commentate dei testi latini e anche il nuovo interesse per la statuaria romana antica, fanno divenire di moda le rappresentazioni di questi soggetti in chiave amorosa. Si tratta in questo senso di committenti laici, che volevano ornare con racconti antichi anche le loro ville suburbane, spesso destinate all’otium, alla lettura, alle discussioni di argomenti a carattere profano e mitologico e alla rappresentazione di spettacoli teatrali. La Loggia di Amore e Psiche è stata ideata propriamente per questo scopo, nella Villa Farnesina alla Lungara.

La villa Chigi nella Roma dei primi decenni del Cinquecento
La villa, commissionata nel 1505 dal banchiere senese Agostino Chigi, divenuto una delle più grandi personalità della Roma dell’inizio del Cinquecento: era amico del papa Giulio II e anche di Raffaello. Proprio a quest’ultimo chiederà di realizzare le decorazioni ad affresco dell’ambiente della Loggia al pianterreno, che sarebbe servito da frons scenae, da proscenio, per gli spettacoli teatrali che era solito rappresentare per i suoi nobili ospiti. La Loggia non era chiusa come la vediamo noi oggi (le vetrate sono state aggiunte nel 1659 per proteggere gli affreschi all’interno), ma aperta sul giardino prospiciente, per sottolineare la continuità tra interno ed esterno, caratteristica che si ritrova anche nella decorazione ad affresco.
La Loggia di Psiche di Raffaello
L’opera di Raffaello è esclusivamente nella volta a pergola della sala (ideata dall’architetto Baldassarre Peruzzi). Le pareti, invece, non fanno parte dell’invenzione dell’urbinate: dovevano rappresentare le scene terrene della favola di Amore e Psiche, mentre la volta sarà riservata alle avventure celesti di Psiche. La scelta di questo mito antico serviva per celebrare uno dei motivi della costruzione della villa stessa: la celebrazione delle nozze di Chigi con la giovane veneziana Francesca Ordeaschi, avvenute il giorno di Sant’Agostino del 1519, pochi mesi prima della sua morte. La villa quindi è legata al tema dell’amore sia per il motivo della costruzione sia per la scelta delle decorazioni ad affresco.

Raffaello era affermatissimo nella Roma del primo ventennio del Cinquecento: dal 1508 era impegnato nella decorazione delle Stanze Vaticane, di cui il committente è Giulio II. Era uso comune per il maestro capobottega realizzare i disegni e alcune delle figure, ma lasciare il resto della composizione alla sua bottega. In questo caso, tra gli artisti coinvolti ci sono due maestri che diverranno fondamentali nella metà del Cinquecento: Giulio Romano e Giovanni da Udine. Proprio Giovanni è l’artefice dei meravigliosi festoni con fiori e frutta, che servivano da trait d’union tra l’interno e il giardino ricco di piante e di statue antiche. Una delle sculture che facevano parte della collezione di Agostino Chigi doveva essere una statua di epoca romana rappresentante Psiche che guarda in alto verso il cielo, intimorita dalla dea Venere, che nel primo pennacchio indica verso il basso e l’esterno, forse proprio ad indicare la bellissima ragazza.

Le avventure sono quindi raccontate nei pennacchi e nei due finti arazzi ideati a copertura della loggia, in cui sono figurati il “Consiglio” e il “Banchetto degli dei”. Dal 6 maggio 2020, un sistema interattivo (fornito anche di spiegazioni dettagliate ed esaustive) permette di esplorare direttamente dal proprio computer, a casa, questa stupenda volta.

