
L’ingrediente fondamentale della vita immaginaria e della vita reale: la favola
Da bambini e da giovani essere soli e in ozio significava per noi costruire immediatamente luoghi immaginari, e vicende e storie, di cui eravamo i protagonisti. Luoghi e storie, li riempivamo di persone, alcune inventate, altre scelte nella nostra vita reale.
Natalia Ginzburg nel saggio del 1974 Vita immaginaria contenuto nell’omonima raccolta
La parola favola mi fa pensare all’illusione, alla fantasia, alla vita immaginaria. Non mi riferisco qui alla definizione scolastica che distingue la favola dalla fiaba per il suo indirizzo morale ed esemplare. Mi lascio trasportare nei regni lontani lontani, quando tanto tempo fa giocavamo a facciamo che io ero questo e che tu eri quello. Seguo la grammatica della fantasia, dove la differenza fra reale e immaginario è assolutamente irrilevante e i due piani si intrecciano come le rime nei versi delle poesie.
Penso qua a D’Annunzio, a La pioggia nel pineto, a quella favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude.
Come ci suggerisce ancora Natalia Ginzburg nella sua Vita immaginaria, l’illusione è irrefrenabile, la fiaba irresistibile:
Quando ci sembrava di essere innamorati, la vita immaginaria prendeva per noi un’importanza immensa. Nel nostro pensiero germogliavano sogni, come fiori su un albero in primavera. Li gettavamo a profusione sul nostro destino. Nel farne dono al nostro destino, ci sentivamo incauti, perché capivamo che il nostro destino era in un momento delicato e poteva fargli male anche un solo fiore. Pure non sapevamo come pietrificare il nostro pensiero. Non sapevamo come impedirgli di fiorire.

C’era una volta…
È senza tempo la fantasia, se fosse un verbo si coniugherebbe tutt’al più all’imperfetto, in modo iterativo, che si ripete rapido e fuggevole, come un canto malinconico la cui eco risuona accompagnando il corso delle nostre vite: c’era una volta. Non finisce, bensì ritorna, si riaffaccia come quando sentiamo riecheggiare i suoni delle azioni che ci accompagnavano da bambini.
È pur vero che la magia si offre solo nel circolo chiuso dell’audizione, nel momento in cui qualcosa accade e non già quando la si racconta o la scrive, quando cioè non è più vita e ormai diviene storia. Di certo non possiamo andarla a scovare in qualche vecchia scartoffia, ma ha il potere di farsi risentire, quando meno ce lo aspettiamo. È voce, musica, formula magica.
Non a caso l’origine della fiaba è orale. E l’oralità, per dirla con Michel de Certeau, è:
linguaggio dell’indicibile e della passione, canto e opera, spazio in cui si cancella la ragione organizzatrice ma dove l’energia dell’espressione dispiega le sue variazioni nel quadro della finzione e parla dell’indeterminato o dell’io profondo.
E lo storico delle favole, il raccoglitore di fiabe, sebbene compia un’opera di razionalizzazione organizzatrice, stenografando, archiviando e catalogando i resti di queste voci altrimenti perdute tra gli antichi e caldi focolari, si dirige verso gli scarti, lavora nei margini, diventa un randagio. Sempre con Michel de Certeau:
In una società portata alla generalizzazione, dotata di possenti mezzi centralizzatori, lo storico si spinge verso i gradini delle grandi regioni sfruttate. Fa uno scarto verso la stregoneria, la follia, la festa, la letteratura popolare, il mondo dimenticato del contadino, l’Occitania, ecc., zone, queste, tutte silenziose.
Favola senza fate e senza maghi
L’errore più grande quando si parla di favola, per riprendere Natalia Ginzburg, sta nel demistificare agli occhi dei bambini l’idea del lupo. Il lupo è nel regno della fantasia e nel regno dell’aspra e libera realtà e non c’è nessun vantaggio nel non avere più paura dei lupi, come se la paura fosse un male da evitare.
Il problema è che è nata in noi l’idea che ai bambini tutto può far male. La favola fa male.
No alle storie di miseria perché sono patetiche. No alle lagrime. No alla commozione. No alla crudeltà. No ai cattivi, perché non bisogna che i bambini conoscano la cattiveria. No ai buoni perché la bontà è sentimentale. No al sangue perché fa impressione. No ai castelli lussuosissimi perché sono evasione. No alle fate perché non esistono.

E invece la realtà come la raccolta di Fiabe italiane di Italo Calvino è piena di fate, di maghi, di principi lussuosissimi, di castelli bellissimi e di teste tagliate, cadaveri, briganti, ladri, orchi, crudeltà e orrori. E i bambini ne vanno pazzi, perché si sa:
Nei regni della vita fantastica, anche le immagini più crudeli generano felicità. Si sa bene che la felicità è fatta anche di spavento e di angoscia. Sopprimere lo spavento e l’angoscia, significa sopprimere anche la felicità.
E Italo Calvino ce lo dice nella sua introduzione alla raccolta. Nelle fiabe si racchiude il catalogo dei destini e nelle sue innumerevoli varianti ci restituisce un disegno così universale che poi così tanto “immaginario” non è:
la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’amore incontrato prima di conoscerlo e poi subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando.

