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Il Ponte dell’età: storia di una dantesca amicizia

Non so se ci avete mai pensato, ma Dante e Virgilio si portavano tra loro una bella differenza d’età. Un ponte di qualche secolo, se consideriamo i milletrecento anni abbondanti trascorsi da Virgilio nel Limbo. Oppure, un ponte di sedici anni se consideriamo l’età a cui Virgilio è morto (cinquantuno) e gli anni che Dante aveva (trentacinque) quando si perse nella Selva Oscura.

Ma questo articolo/speciale non parla assolutamente di questo, niente chicche filologiche e curiose pedanterie tra i due sontuosi, amici-poeti. Tuttavia, la Divina Commedia c’entra, perché proprio i suoi versi sono stati il “ponte dell’età” che ha acceso l’amicizia tra me e Luca Serianni. Chi è questo signore, a parte uno dei più noti linguisti di cui la tradizione italiana si potrà mai vantare? Sicuramente, egli è stato molte altre cose: un magnifico professore universitario, un esperto di Dante e della poesia ottocentesca, un faro dell’istruzione per molti. Anzi, per tutti; anche per quelli che non scrivono sé stesso con l’accento. A due mesi dalla sua scomparsa e a pochi giorni dal suo compleanno (30/10) ripenso a lui con un sorriso, dicendomi che dal nostro Serianni non si potrà mai prescindere. Ma l’articolo, a ben vedere, non parla neanche di questo.

Il grande tema svelato

Se ben conosco il mio professore, adesso starebbe perdendo la pazienza, persino lui che di pazienza ne aveva molta. Per cui, svelo le mie carte: volevo semplicemente condividere con voi lettrici/lettori quello che Luca Serianni è stato per me, come amico. Affermo questo con grande orgoglio e nostalgia. Non è scontato infatti per un alunno poter dire di aver costruito un rapporto di amicizia con un professore universitario e, vi assicuro, non uso alla leggera il termine “amicizia“. Non perché la carica di “professore universitario” costituisca una barriera sociale invalicabile nei confronti degli studenti. Questo non sarebbe mai stato un problema con Luca, che sapeva perfettamente stare nel suo ruolo senza apparire distante agli allievi.

Ciò che veramente mi ha stupito è stata la facilità con cui siamo riusciti a instaurare un dialogo schietto, simpatico, vivace. Abbiamo costruito un vero e proprio ponte generazionale tra il 1947 (sua data di nascita) e il 1994 (la mia). Non capita spesso di avere amici che hanno quarantasette anni più di noi e, in fondo, ci sembra naturale. Tra persone così distanti nel tempo ci sono plausibilmente interessi, gusti e schemi di pensiero diversi; le situazioni e i momenti della vita che si attraversano non sono gli stessi.

In questi casi, è facile che il più anziano diventi il mentore dell’altro, una figura di riferimento. Insomma, le affinità restano ma non si crea quella complicità tra pari, quei discorsi sullo stesso piano tipica degli amici in senso stretto.

Ma qui, oltre che negli scritti e nelle lezioni, sta la grandezza di Serianni: riusciva a comunicare oltre la barriera dell’età con i ragazzi e le ragazze. Perché ci è riuscito? Perché lui stesso era un “ragazzo d’oro”, come una volta mi raccontò un suo coetaneo. Aveva un’umiltà sconvolgente, non a parole, perché con quelle sapeva essere abbastanza buffone; ma con i fatti, con lo sguardo e con il tono della voce. Mai ho percepito in lui un filo di supponenza, di arroganza, di esibita cultura; sempre invece l’ironia e l’auto-ironia di pirandelliana memoria.

Adesso mi direte, ti sei permesso di chiamarlo “buffone”… meriteresti di essere radiato dall’albo nazionale dei professori di italiano. Sì, lo merito. Ciononostante, basterà ad assolvermi la consapevolezza che Luca, in quanto amico, sa che cosa significa la parola “buffone” nel mio personale codice linguistico.

Luca Serianni
L’inconfondibile sorriso di chi la sa mooolto lunga

In tutto ciò, nell’articolo non volevo nemmeno parlare di questo, ma darvi un’anticipazione del mio saggio: Per una drammaturgia dell’Inferno di Dante, dedicato a Luca Serianni, maestro e amico. Avevo già pronti anche i soliti collegamenti sfizio-colti: il riferimento al ponte crollato tra quinta e sesta bolgia; le discussioni sulla data scelta per il Dantedì; la stoccata di Serianni agli studiosi di Francesco Petrarca: «Dov’è il Petrarcadì?». Poi invece mi sono fatto prendere, come un bambino e non come uno studioso, dalla voglia di raccontarvi del mio amico.

La chiosa giusta

Tuttavia, non sentirei di avervi fatto arrivare l’essenza di Luca, se non vi lasciassi in chiusura qualcosa di profondamente istruttivo, classico. Di seguito trovate quello che mi ha confidato essere il suo canto preferito dell’Inferno; un canto lontano dai riflettori, oscurato dalla fama di Ulisse. L’ultimo ponte tra la mia visione della Commedia e la sua.

Parlo del Canto XXVII in cui campeggia la figura del consigliere fraudolente Guido da Montefeltro, detto la Volpe. Al contrario del suo titanico predecessore, Guido ci viene mostrato come una figura più umana, sofferente, meno alta ma forse per questo ancora più reale. Viene corrotto e sviato dal suo pentimento dal male in persona, ovvero papa Bonifacio VIII. Commetterà infatti, su istigazione del pontefice, un peccato per cui crede di essere assolto; ma la logica non consente di peccare perché tanto poi ti penti e va tutto a posto. Lo imparerà a sue spese la Volpe, quando neanche San Francesco potrà intercedere per lui contro i demoni infernali che, giustamente, lo reclamano.

Ora avete la cornice: godetevi senza indugi il quadro. Buona lettura a tutte/i e un caro saluto.

Dal ponte dell’ottava bolgia

ponte-dante
Anonimo lombardo, Dante e Virgilio sul ponte dei mali consiglieri

Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,

quand’un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia.

Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima,

mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;

così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.

Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,

udimmo dire: “O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,

perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!

Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra
latina ond’io mia colpa tutta reco,

dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
e ’l giogo di che Tever si diserra”.

Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: “Parla tu; questi è latino”.

E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
“O anima che se’ là giù nascosta,

Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ’n palese nessuna or vi lasciai.

Ravenna sta come stata è molt’anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.

La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.

E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d’i denti succhio.

Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.

E quella cu’ il Savio bagna il fianco,
così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.

Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte”.

Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l’aguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:

“S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;

ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.

Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m’intenda.

Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe.

Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie.

Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,

ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.

Lo principe d’i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,

ché ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,

né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.

Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro

a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.

E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.

Lo ciel poss’io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care”.

Allor mi pinser li argomenti gravi
là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
e dissi: “Padre, da che tu mi lavi

di quel peccato ov’io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.

Francesco venne poi, com’io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: “Non portar; non mi far torto.

Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;

ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”.

Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse
tu non pensavi ch’io löico fossi!”.

A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,

disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro”.

Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo ’l corno aguto.

Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’arco
che cuopre ’l fosso in che si paga il fio

a quei che scommettendo acquistan carco.

Inferno, Canto XXVII

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