
Solo a teatro, mai: la vera arte della relazione
Quando Amleto, congedando gli attori appena arrivati a corte, dice: «Sì, sì, sì… Dio vi guardi – eccomi solo»1. Mente. O meglio, mente l’attore che dichiara la sua solitudine a teatro e, al tempo stesso, dice la verità.
Ma prima di continuare a confondervi le idee, chiariamo almeno a che punto della tragedia siamo: Atto II, Scena 2 del capolavoro di Shakespeare. Il benedetto Principe di Danimarca, Amleto, ha perso suo padre (adempiendo così a una lunga tradizione di famiglia). Parla però con lo Spettro del suo vecchio e apprende che è stato ucciso dallo zio Claudio, usurpatore del trono! Allora, divorato dal dubbio, comincia a escogitare piani per costringere l’attuale sovrano a tradirsi e quando una compagnia di attori arriva al castello di Elsinore, gli viene in mente la genialata: far rappresentare davanti a Claudio l’assassinio del fratello e, se poco poco batte ciglio, Amleto si vendicherà senza esitare. Non mi dilungherò oltre sulla trama (anche se sarebbe uno spoiler perdonabile), dal momento che su Amleto abbiamo già scritto, io e altre migliaia di persone.
Piuttosto, veniamo al tema dell’articolo: il “solo”2, non la “solitudine”. E torniamo al disorientante inizio del mio discorso, stavolta con la presunzione di spiegarlo. Quello che intendevo dire è che a teatro non si è mai soli. Certo, ciascuno di noi vive la solitudine e la singolarità del proprio Io, ma ogni attore incontra i personaggi degli spettacoli; soprattutto, ad ogni replica incontra noi, il pubblico. D’altra parte, il teatro è l’arte della relazione; affinché esso esista tre cose sono necessarie: un attore, uno spettatore e un luogo in cui si incontrano. Poi c’è la relazione con i compagni in scena, una rete di fili invisibili che legano le battute e i movimenti di chi fa lo spettacolo. I corpi e le voci dei performer esistono e agiscono in relazione, in reazione a qualcuno o qualcosa.
Da solo sul palco: recitare un soliloquio
Detto questo, il caso che vi ho proposto all’inizio è quanto di più solitario un attore possa fare: recitare un soliloquio. Il che è diverso dal monologo, perché in quest’ultimo colei o colui che dice la battutona la rivolge a qualcuno che è presente in scena. Mentre nel soliloquio, chi parla è dichiaratamente da solo sul palco. Perciò, in realtà Amleto non mente né ha assunto sostanze allucinogene quando afferma di essere rimasto, finalmente, da solo. Tuttavia, l’attore che lo interpreta sa che non è così; perché persino in quel momento, col palco deserto alle spalle, davanti a sé avrà un pubblico che ascolta, al di là della magica barriera della finzione.
Questa sensazione, che ho provato sulla mia pelle, mi ha sempre consolato: a teatro ci esprimiamo per noi stessi ovviamente, ma anche, sempre, per qualcun altro. L’azione, l’emozione più intima e personale non si esauriscono in noi, ma diventano dono, rinascita. Nella finta solitudine del teatro gli attori restituiscono sé stessi, e perciò chi guarda si riconosce in quello che vede. Un proverbio dice: “la gioia è reale solo se condivisa”, e con lei anche il dolore, nella condivisione artistica, si sublima e rompe il confine dell’identità individuale.
Di chi sono i sentimenti di un attore: suoi, nostri, di tutti? Per chi prova quei sentimenti che vediamo recitati? Per Amleto è impossibile dirlo. In tutto questo c’è qualcosa di mostruoso, qualcosa di meraviglioso e un pizzico di indispensabile.
Non è mostruoso che un attore,
Amleto: Atto II, Scena 2
pur fingendo, in un sogno di passione
possa forzare l’anima a un concetto,
così da scolorare tutto in volto
e piangersi e sconvolgersi, con voce
rotta e con gesti che disegnan forme
rispondenti all’idea. E tutto per nulla?
Per Ecuba?
Ma per lui che cos’è? Chi è lui, per Ecuba
da farne tanti gemiti?
Ma se la comunanza tra attore e spettatore è la stessa che c’è tra esseri umani, forse la domanda amletica trova infine risposta: l’attore piange e ride per tutti coloro che hanno riso e pianto, considerando tutto ciò che è umano come parte di sé3. E la regina Ecuba, moglie di Priamo, che vede sfumare Troia in fiamme sotto i suoi occhi è solo un pretesto, ancora una volta, per stare insieme.
Note
1- I testi citati nell’articolo sono presi dalla traduzione di Eugenio Montale.
2- Per dirlo alla british; noi, soprattutto in musica, diremmo “assolo”.
3- Riadatto una frase rubata alla commedia Heautontimorùmenos di Terenzio: homo sum, humani nihil a me alienum puto (sono un uomo, e niente di ciò che è umano ritengo a me estraneo).

