
L’ultimo inchino? Una vita da Eduardo a Puck
Ci si inchina più a teatro che a palazzo: è un dato di fatto. Si tratta di un’azione, di un rito talmente naturale, che mai avrei pensato di rifletterci. Ma, d’altra parte, Idee Folli serve proprio a questo: a far palesare quei dettagli che nella vita sgusciano dai pensieri.
Prima ho detto che l’inchino è un “rito naturale”, e l’accostamento di queste parole sembra quasi un ossimoro: il rito è qualcosa di codificato, rigido e fisso nella tradizione; ciò che si definisce naturale, al contrario, si presuppone che sia anche vivo, fluido e spontaneo. Insomma, sembra proprio un ossimoro! E lo è. Ma qual è il problema? A noi gli ossimori piacciono in poesia, figuriamoci a teatro.

Certo, la cultura dell’inchino è troppo vasta e profonda per essere confinata al mondo regale o teatrale, motivo per cui noi ci concentreremo solo su quest’ultimo. E a teatro, ciò che conta è che nessun inchino è uguale all’altro, nessuno è una vuota ripetizione. Si tratta di un rapporto antico, quello tra attore e pubblico, rinnovato e unico ogni sera, da millenni. Tuttavia, quando questa parola ha cominciato a frullarmi in testa, non è stata la filosofia ad affacciarsi tra i miei neuroni, bensì un ricordo. Riccardo che su Facebook mi scrive, sotto questa foto, a distanza di anni: «il nostro l’ultimo inchino?».
Io gli rispondo: «Forse no». Così, all’improvviso, stasera ripenso di nuovo a quello che è stato finora l’ultimo spettacolo in cui abbiamo recitato insieme. Per me era anche il primo: il mio esordio da Don Raffaele nella commedia Non ti pago! di Eduardo De Filippo.
Poi abbiamo preso strade diverse, solo io ho continuato a camminare sul parquet. Le assi di legno dei palcoscenici della vita mi hanno condotto fino in Danimarca, al teatro di Odino: la roccaforte di Eugenio Barba, maestro della drammaturgia, della regia e dell’antropologia teatrale del Novecento. Lì, tra i tappeti e le sale dell’Odin Teatret ho visto molte cose, ma mai un inchino. Ve lo dico chiaramente: se andate a vedere uno spettacolo di Eugenio & company, state freschi ad applaudire, nessuno verrà a inchinarsi1.
Perché? Non gliel’ho mai chiesto. Ho capito però che l’inchino non è il punto da quelle parti, non deve essere il punto. In questo rito forse, alcuni percepiscono una volontà di compiacere e di essere compiaciuti, una forma canonizzata quindi, un cliché del ringraziamento. Per l’Odin a teatro ci si incontra, si ride, si piange, ma nessuno ti fa l’inchino.
Il rischio dell’inchino e dell’applauso
Puoi farti arrossare le mani a forza di «clap, clap! Bravi», nessuno uscirà fuori a prendersi gli applausi. Sembra scontato, ma voglio ribadirlo. Parecchi mandano a quel paese gli attori dell’Odin per questo, “quel paese sconosciuto dal quale nessun viandante ha mai fatto ritorno”2. Forse anch’io mi rispecchio in questa scomoda filosofia, o forse no; forse ciascun attore merita il rischio dell’inchino e dell’applauso, in bilico tra egocentrismo e altruismo, tra cliché e verità, tra ruffianeria e rispetto. Ché poi alla fine tutte ‘ste dicotomie, quando leggi Sogno di una notte di mezza estate, scompaiono:
Se l’ombre nostre offeso v’hanno,
pensate, per rimediare al danno,
che qui vi abbia colto il sonno
durante la visione del racconto
e questa vana e sciocca trama
non sia nulla più di un sogno.
Signori, non ci rimproverate,
rimedieremo, se ci perdonate.

E, come è vero che son sincero,
W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate
se solo avremo la fortuna di sfuggire ai vostri insulti,
a fare ammenda riusciremo.
O chiamatemi bugiardo, se vi va!
Quindi buonanotte a tutti voi.
Regalatemi un applauso, amici miei,
e Puck a tutti i danni rimedierà.
Poche semplici parole in rima del folletto Puck, al termine della commedia più metateatrale di Shakespeare3, ed ecco brillare di nuovo quel dono futile che l’attore richiede al pubblico: una schiena si piega, delle mani fanno baccano e lo spettacolo è finito, la compravendita di emozioni è avvenuta. Sembra tutto così povero, banale, emozionante, prezioso: umano.
Lettrici e Lettori, grazie.
Note
- O magari sono io che ho assistito solo agli spettacoli non inchinanti, chissà.
- Espressione presa in prestito dal celeberrimo monologo dell’Amleto: Essere o non essere; non senza un retrogusto di Te c’hanno mai mannato a quel paese, cantata da Alberto Sordi.
- Una gustosa trama a matrioska, in cui una storia fa da cornice all’altra: dalle nozze di Teseo e Ippolita alla giostra di amori tra Elena, Demetrio, Lisandro e Ermia, per arrivare nel mondo delle fate con Oberon, Titania e il loro servo Puck; tutto ciò, mentre una compagnia di attori prepara lo spettacolo per le nozze regali su Piramo e Tisbe.

