
Il vento di Miyazaki: far volare i propri sogni
Probabilmente avete visto “La città incantata”; se non la conoscete, vi consiglio vivamente di guardarla insieme a molti altri film di Hayao Miyazaki. Dico film, e non cartoni animati, perché le storie raccontate da questo regista sono tutto tranne che cartoni per bambini, e “Si alza il vento” ancora meno degli altri. Non c’è nulla di fantastico in questa trama: siamo nel Giappone degli anni ’20 e il piccolo Jiro ama gli aeroplani, la più eccezionale delle innovazioni tecnologiche dell’epoca. Vorrebbe poterli pilotare, ma il suo sogno viene subito messo a dura prova.
Lo scontro con la realtà (parte 1)
Il film si apre con un sogno: Jiro, alla guida di un aeroplano, vola nel cielo. Ad un tratto, tutto diventa sfocato, gli occhiali sfuggono a Jiro e l’aereo precipita. Il primo ostacolo per tutti gli amanti del volo è qui, pronto a colpire il nostro protagonista: la miopia. Tuttavia, invece di ripiegare su qualche altro mestiere, Jiro si intestardisce sempre di più e a quell’aspirazione ne sostituisce subito un’altra: quella di costruire gli aeroplani.

Di nuovo in sogno immagina di incontrare, infatti, l’inventore italiano Caproni, famoso costruttore di aeroplani. Caproni, dopo avergli fatto intravedere la bellezza di un aereo futuro destinato al trasporto di passeggeri, gli confida di non saper pilotare: costruire gli aerei, è molto più bello che guidarli.
Non è l’unica volta in cui Jiro immagina di incontrare Caproni (o forse lo incontra realmente? Dopotutto i confini tra realtà e finzione, in Miyazaki, sono piuttosto labili): quest’ultimo diventa una presenza più o meno fissa, che accompagna Jiro per tutta la sua vita di ingegnere.
Jiro cerca quindi di costruire aeroplani, ma deve scontrarsi con l’arretratezza del Giappone; mentre altri Paesi costruiscono aerei di avanguardia, l’impresa per cui lavora Jiro non riesce a progettare nulla di abbastanza forte, stabile e veloce. Così Jiro viene inviato in Germania, per prendere spunto dalle tecnologie tedesche. Ma, più che quello, sarà la sua inventiva a dare vita, finalmente, ad un aeroplano davvero innovativo; costruito sull’esempio aerodinamico delle spine di pesce, il suo aeroplano sarà infine eccezionale.

Lo scontro con la realtà (parte 2)
C’è però un altro, grande problema: siamo negli anni ’30 e gli aeroplani sono la più importante arma a disposizione per un’eventuale – e quanto mai prossima – guerra. Jiro, e il signor Caproni dei suoi sogni, vorrebbero un mondo in cui gli aerei servano solo a trasportare passeggeri; aeroplani pieni di persone festanti, che arrivino a solcare gli oceani.
Ma, sebbene questo sia il loro desiderio, la realtà è un’altra e, con questa realtà, bisogna fare i conti. “Noi non siamo mercanti d’armi, vogliamo solo creare ottimi aeroplani” dicono Jiro e il suo amico/collega. Tuttavia è inutile negare che, in questo periodo storico, costruire un aeroplano può avere lo stesso significato di costruire un fucile, o un cannone, è il conflitto morale è ugualmente acuto.
Jiro, però, non smette di disegnare i suoi progetti e perfezionarli sempre di più. Perché? Il signor Caproni dice che l’umanità ha sempre cercato di librarsi verso il cielo, fin dai tempi delle piramidi; ma questo può essere uno strumento di distruzione. “Ma io preferisco il mondo con le piramidi” conclude il signor Caproni. Jiro, dopo un attimo di riflessione, risponde: “Io penso di voler creare splendidi aeroplani”.
Lo scontro con la realtà (parte 3)
Per non farci mancare niente, infatti, Jiro si innamora, ed è il vento a portarlo dalla sua dolce metà. Sul treno Jiro si sporge per guardare il panorama, e una folata di vento gli strappa il cappello. Sarà una ragazzina a riprenderlo al volo, rischiando di cadere dal treno, e nel restituirglielo gli dirà: “Le vent se lève, il faut tenter de vivre.” Poco dopo il treno si ferma per un terribile terremoto e Jiro aiuta la ragazzina e la sua accompagnatrice a raggiungere casa loro.

Anni dopo Jiro, camminando in un prato, si vede volare tra le mani un grande ombrello bianco, trascinato dal vento. Naturalmente la proprietaria dell’ombrello è la stessa ragazza, ora cresciuta, che, si scopre, ha sempre pensato a Jiro come a un eroe. Bellissima storia d’amore accompagnata dal vento, forse anche troppo vento: infatti la ragazza, Nahoko, è affetta da una grave forma di tubercolosi. Per avere una possibilità di guarire, Nahoko dovrebbe ricoverarsi in una clinica in montagna, ma Jiro non potrebbe seguirla, perché altrimenti dovrebbe abbandonare il suo lavoro e il suo sogno, forse per sempre.
Così, dopo un primo periodo in cui i due sopportano la distanza, la ragazza lascia la clinica per sposarsi con Jiro e vivere al suo fianco. Come previsto, la tubercolosi peggiora fino a divenire gravissima. Alla fine Nahoko esce di casa per fare una passeggiata, sostenendo di sentirsi meglio. Ha invece presagito il momento della fine e, per non affliggere il marito con la sua malattia, decide di andarsene per lasciargli solo i ricordi più belli di lei. Il vento ha dato, il vento ha tolto.

È lecito sacrificare tutto ad un bel sogno?
A questo punto sembra necessario porci questa domanda: Jiro è un mostro? Un genio? Un egoista? Sembra essere un po’ tutte queste cose insieme. Costruisce aeroplani sapendo che serviranno come arma di distruzione, trincerandosi dietro la pallida scusa di ogni fabbricante di armi di infima categoria; lascia che la donna che ami si aggravi, perché accompagnarla in clinica vorrebbe dire abbandonare il suo lavoro.
E quali scusanti ha? Vero che, come dice il padre di lei, “un uomo è un uomo se lavora”. Ma è una mentalità che, se nel Giappone degli anni ’30 può sembrare giusta, oggi non ci appare più tanto corretta. La verità è che ciò che spinge Jiro a sacrificare al suo sogno ogni cosa è una forza più grande di ogni razionalità. Il verso di Paul Valéry “Le vent se lève, il faut tenter de vivre!” racchiude tutto il senso del film. Perché? Per scoprirlo, leggete l’articolo di Marco e lasciatevi trasportare dal vento delle sue suggestioni.

